CULTURE COME ONTOLOGIE O L’ONTOLOGIA COME CULTURA?
A PROPOSITO DI “CONTROVERSIE” SULLA SVOLTA ONTOLOGICA

Francesco Remotti

In uno scritto di alcuni anni or sono mi è capitato di definirmi – e tuttora mi capita spesso di presentarmi – non come antropologo, ma come “aspirante antropologo”. Non si tratta di un gesto di falsa modestia, in attesa delle rassicurazioni di astanti e interlocutori. Che non si tratti di ciò, lo si intuisce dallo scritto ora evocato, là dove si sostiene che sarebbe opportuno se, «almeno sul piano personale», un po’ tutti gli antropologi non si considerassero antropologi finiti e compiuti, ma appunto «aspiranti antropologi», a prescindere dalle posizioni accademiche occupate. Se qualche lettore volesse poi indagare motivi, scopi, implicazioni di questa proposta, mi sia consentito rinviare a due altri miei scritti: un libro pubblicato nel 1990 e poi riedito un ventennio dopo, e un saggio presentato a un convegno in onore del centenario di Claude Lévi-Strauss. Partiamo dal titolo del saggio or ora citato: sfruttando il tema dell’“imperfezionamento” vorrei avvicinarmi al dibattito sulla “svolta ontologica” in antropologia. Ho infatti l’impressione che il ricorso esplicito e sistematico al termine “ontologia” da parte di importanti esponenti del sapere antropologico contemporaneo – e con loro numerosi altri aspiranti antropologi – sia da intendersi come un desiderio di “perfezionamento”, un modo dunque per ovviare alle imperfezioni che rendono questo sapere tanto precario e instabile (forse il sapere più instabile e precario tra le scienze umane e sociali in cui di necessità viene collocato).

Culture come ontologie o l’ontologia come cultura?
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