DAL CORPO OGGETTO ALLA MENTE INCARNATA
In francese si dice che “il caso fa bene le cose”. Quando progettammo più di un anno e mezzo fa la “Questione filosofica” di questo numero, “Dal corpo oggetto alla mente incarnata”, non potevamo immaginare quanto questo tema sarebbe diventato attuale. Perché il caso, o forse meglio, “il destino cinico e baro” ci ha imposto, spesso nostro malgrado e non senza perdite e dolori, di capire che i nostri corpi sono sì degli oggetti – sociali, politici, estetici – ma soprattutto il luogo dove la nostra mente si incarna. La crisi pandemica è stata anche questo: il momento in cui il nostro corpo, malato, da preservare, limitato nei suoi movimenti, coperto e ridotto a icona su uno schermo, ha ripreso il centro della scena, come esigenza e problema. Ed è forse a causa di questa contingenza che ci accomuna e determina, impercettibilmente ma inevitabilmente, le nostre giornate da un anno a questa parte, che molti dei contributi di questo numero sembrano condurre una riflessione comune sulla nostra condizione di soggetti incarnati.
Oltre che della “Questione filosofica”, per la quale rimandiamo alla presentazione dettagliata della guest editor Francesca Brencio, il tema della soggettività incarnata e delle esperienze che la costituiscono, la precedono o la dissolvono, malgari minandola o crivellandola dall’interno, è al centro anche dei quattro contributi raccolti nella sezione “Laboratorio”. Silvia Zanelli riprende la decostruzione della nozione di soggetto proposta da Deleuze a partire da un tentativo di empirismo trascendentale e radicale che possa fare accedere al campo di forze della pura, a-soggettiva immanenza della vita. Ma, segnala Zanelli, c’è forse qui il rischio di una sorta di metafisica dell’immanenza, ossia di “un immanentismo così radicale e nomade che in un’ultima analisi finisce per sganciarsi dai corpi e dalle singole esperienze soggettive”. Che la soggettività si costituisca a partire da un processo in cui il confine tra noi e il mondo resta lungamente ambiguo e mobile, è, come mostra Marco Casiraghi, uno dei grandi temi della riflessione di Lacan. Il cui pensiero è qui affrontato a partire da due paradigmi dell’oggettivazione visuale. Si vedrà così farsi avanti il paradosso di un soggetto che diviene tale non solo istituendo il proprio oggetto (ciò che è gettato davanti, ob-jectum, e chiude l’orizzonte), ma anche e soprattutto scoprendosi egli stesso oggetto, se non addirittura spettacolo, come un orizzonte infinito e non mai oggettivabile.
Questa mediazione sulla falsa coscienza di una soggettività che si vorrebbe uscita tutta armata (e formata) dalla testa di Minerva del cogito, continua idealmente nel contributo di Monica Gorza che segue le riflessioni di Nancy sull’io non-singolare del corpo politico. Il pensiero di Nancy si alimentata al contempo di una ripresa del cartesianesimo misurato nei suoi limiti, dell’esperienza dell’estraneo che ci diventa intimo (meditando la condizione di un corpo che accoglie un trapianto) e della necessaria definizione del sé come sé comunitario. Questo intersecarsi di soggettività, corporeità patologica e politica trova una sorta di detonatore teoretico nella crisi pandemica ed è proprio alle pagine di Nancy sul COVID che Gorza dedica una parte della sua ricostruzione. Ma la questione della soggettività non riguarda solo l’ontogenesi ma anche la filogenesi, e ce lo ricorda Domenico Dodaro, riprendendo in maniera polemica le tesi di Gehlen sull’ominazione. L’idea che l’uomo sia l’animale non specializzato perché aperto al mondo nel suo tutto e non ad un ambiente specifico o a un set di condizioni dipende in Gehlen da un certo numero di assunti che hanno a che fare con la storia naturale e la dottrina dell’evoluzione. Assunti che tuttavia, argomenta Dodaro, appaiono talvolta fragili se non pretestuosi. La singolarità dell’uomo, unica specie che costruisce, per così dire, soggettivamente la sua specificità, può essere comunque salvaguardata o la teoria dell’evoluzione nella sua forma attuale impone di negare ogni privilegio all’ominazione?
La sezione “Culture”, che intende varcare i limiti della nostra tradizione occidentale, presenta un testo davvero esemplare di Alberto Peratoner: un’accurata e ricchissima presentazione della cultura armena, in generale trascurata e poco conosciuta, nei suoi aspetti storici, linguistici, letterari, artistici e religiosi. Il titolo, “Aperta perché identitaria”, indica la particolare fisionomia della cultura armena insieme identitaria e cosmopolita, per i nostri lettori una scoperta e insieme una prospettiva di integrazione valida anche per la nostra cultura.
L’analisi dei cortocircuiti tra fenomenologia e psicopatologia che è al centro della “Questione filosofica” riprende e si prolunga nella sezione “Intersezioni” con due interventi frutto di ricerche sul campo. È il caso innanzitutto di Susi Ferrarello che si concentra sulla sindrome di Ulisse, cioè un insieme di patologie legate all’esperienza del distacco dalla patria e dalla cultura natale. Il problema non è quello della nostalgia o dell’estraniamento, spesso fertili e salutari, ma di una sorta di disaccordo tra le istanze che hanno strutturato nei suoi momenti formatori la nostra esistenza psichica e i contesti cui il soggetto si trova a convivere. Lo scarto diventa palese nelle situazioni traumatiche e Ferrarello vede nelle pratiche di costituzione di Stimmungen, o posture affettive, condivise l’unica via per affrontare queste sindromi. Ché, come spiega l’intervento di Vanacore, Di Petta e Tittarelli, è tempo di lasciarci alle spalle l’antica, ma oh quanto duratura, immagine della malattia psichica come forma di isolamento radicale, un essere legati ad un orizzonte di esperienze inaccessibili e perciò incomprensibili ad altri che al paziente stesso: un matto da legare, dunque perché già legato ad un mondo che non è più il nostro. Una delle risorse della fenomenologia e di una “fenomenologia ad alzo zero” che sappia alimentarsi dell’analisi husserliana ed heideggeriana del nostro essere al mondo come corpi, è quella di farci immaginare delle possibilità di incontro anche con l’altro per eccellenza della malattia mentale. Potrà sembrare incongruo accostare queste analisi al contributo di Matteo Bianchi dedicato ad una “lettura non romantica del Don Giovanni di Mozart”. Tuttavia, proprio dalla prossimità nella medesima sezione, appare con evidenza che anche qui – iscritto nell’ambiguità di un doppio finale dell’opera, che in un caso vede l’eroe scomparire agli inferi, domato ma non vinto, e nell’altro i superstiti cantare insieme “l’antichissima canzon” del briccone punito – anche qui, dicevamo, ne va della costituzione della soggettività, che è frutto, secondo Mozart, di rapporti di forze spesso destabilizzanti e proprio per questo costitutivi: Don Giovanni è un agente patogeno che rende visibili le patologie nascoste degli altri protagonisti e così mette a nudo il rovello che sta dietro la finta armonia di una società che canta la propria serenità in un finale corale.
La sezione “Controversie” riprende la posta in gioco dello statuto della soggettività e la ripropone ad un livello più astratto. Dario Sacchi segnala un punto di fragilità nel pensiero di Severino, che farebbe difetto di una fenomenologia del divenire che confermi (con l’evidenza di ciò che si dà rivolgendosi “alle cose stesse”) l’ontologia neoparmenidea costruita dal filosofo di Brescia. Reagiscono a questa lettura, contestandola o confermandola, entro una cornice di confronto serrato e assai pertinente, Rocco Ronchi, Alberto Biuso, Francesco Totaro e Luigi Vero Tarca. Ma, al di là delle differenze di lettura, ne va sempre della possibilità del soggetto, qui inteso come coscienza indiveniente del divenire oppure come inaccessibile esperienza umana che faccia da controparte al solo apparire possibile per Severino, l’apparire degli “eterni”. Siamo soggetti abitati da istanze che non ci appartengono ma che ci plasmano, iscrivendosi nelle nostre pratiche e quindi nella saggezza quotidiana dei nostri corpi. L’ampiezza e la problematicità di questi fenomeni sono sottolineate nella sezione “Pratiche filosofiche” da Sara De Carlo che ripensa – il titolo, “Sconfinati spazi e sovrumani silenzi”, è di per sé indicativo del giudizio complessivo – l’esperienza sofferta della didattica a distanza (la cosiddetta DAD) che ha fatto intersecare da mesi in un nuovo spazio la vita di studenti, insegnanti e famiglie. Questo spazio è uno spazio ambiguo, domestico ma non privato, inclusivo ma non includente: il luogo di una comunità ma solo di una comunità di menti che dovrebbe fare corpo dimenticandosi dei propri corpi. È possibile? È auspicabile? È giusto?
La sezione “Corrispondenze” contiene una ben documentata relazione sulla esperienza di Lorenzo Serini all’Università di Warwick, che raccoglie le sue impressioni dal dottorato fino al suo inserimento accademico, suddivise in tre punti: PhD, Teaching e Job Market. Ne viene uno sguardo assai interessante sul mondo universitario inglese e l’impressione che le università italiane, se da un lato devono far valere di più i loro indubbi meriti, dall’altro è bene si aprano maggiormente a un confronto benefico con altre realtà accademiche internazionali.
Nella sezione “Letture e eventi” si trovano le recensioni di Renato Boccali su Ritmografie di Silvano Facioni, André Velasquez su A che punto siamo? L’epidemia come politica di Giorgio Agamben e Cristina Zaltieri su Amice Colende. Temi, storia e linguaggio nell’epistolario spinoziano, a cura di Marta Libertà De Bastiani e Sandra Manzi-Manzi. Inoltre, per gli eventi Sara Fumagalli riferisce sul Festival di Filosofia di Modena dedicato al tema “Macchine” e Ana Lucia Montoya Jaramillo documenta le due giornate del Fonds Ricoeur di Parigi dedicate alla filosofia della volontà di Paul Ricoeur, al quale sarà dedicata la sezione “Questione filosofica” del prossimo numero della nostra rivista.
La sezione “Contributi speciali” chiude questo numero della rivista con un omaggio dedicato a Ugo Fabietti, la cui recente scomparsa ha privato l’antropologia italiana di un suo illustre rappresentante, da parte di Gianni Trimarchi che, facendo tesoro della sua lezione, riprende in “Le metamorfosi dell’ovvio” le questioni sollevate nelle prime sezioni della rivista da un punto di osservazione singolare, e proprio per questo privilegiato e intrigante: quello dei dispositivi mediatici (ossia delle forme di rappresentazione artistica o politica) come strumenti di “implosione”. La categoria, proposta da Appadurai, invita a pensare le forze pulsionali come suscettibili di essere alimentate se non suscitate da stimoli esterni, che eventualmente possono canalizzarle o farle esprimere violentemente. Trimarchi fa convergere le evidenze dell’antropologia culturale, le riflessioni dell’estetica e il meglio della sociologia concreta, per ricordarci quanto le narrazioni siano lo strumento privilegiato scelto da sempre dagli uomini per indirizzarsi “ad agire su nuove mete, in base a nuove evidenze, sostituendo le emozioni con altre emozioni”. Difficile immaginare una prova più evidente di questo assunto della crisi che ancora stiamo vivendo.
Prima di passare la parola alle autrici e agli autori di questo ricchissimo volume, siamo felici di annunciare che InCircolo è stata riconosciuta come rivista scientifica per l’Area 11 durante l’ultima tornata di valutazioni a cura dell’ANVUR. Si tratta di un riconoscimento che ci rende orgogliosi e che corona la passione e il grande lavoro dell’intera squadra di InCircolo, dagli inossidabili decani alle più recenti acquisizioni. Vi ringraziamo di cuore e siamo onorati di proseguire con voi questa bella avventura.