STILE E FILOSOFIA
In un celebre opuscolo dedicato allo “spirito di geometria” e all’“arte di persuadere”, Pascal afferma che ci sono tre oggetti possibili nello studio della verità: “scoprirla, quando la si cerca; dimostrarla, quando la si possiede e infine distinguerla dalla falsità quando la si esamina”. Scoprire la verità, dimostrarla e distinguerla dal falso: in queste tre operazioni si può riassumere anche la funzione della filosofia. Solo la prima di queste tre operazioni è però una azione solitaria. Si ricerca da soli, ma se si dimostra una verità che già si possiede lo si fa essenzialmente per gli altri. E anche l’operazione di distinguere il vero dal falso è sempre frutto di un dialogo, fosse anche il dialogo interiore che intratteniamo con i nostri passati errori e pregiudizi. Ma non appena si apre lo spazio del dialogo si affaccia anche l’esigenza di come impostarlo: quale parola usare per dire una verità che si possiede o che si crede possedere? E quali parole sollecitare per condurre anche gli altri ad accoglierla o quanto meno ad accettarla? La questione dello stile diventa in questo senso indistricabile da quella della verità. Nessun testo filosofico è formulato da una voce anonima. Il punto di vista “da nessun luogo” (“the view from nowhere”), che ha teorizzato il filosofo Thomas Nagel ci resta inaccessibile. Anzi, più un testo si vuole neutro, privo di inflessione personale, lucido, più lo stile emerge con forza: come sentiamo la voce di Spinoza che parla negli scolii che scartano dalla litania delle proposizioni dell’Etica, o quella di Wittgenstein a dare il tono a ognuna delle proposizioni del suo Trattato! A tal punto che la mancanza di stile in un testo filosofico potrebbe essere quasi un indice infallibile che l’autore non possiede, ma soltanto recita, la verità che propone.
Alla questione essenziale dello stile in filosofia è dedicato il dossier diretto da Silvia Pieroni che occupa la sezione “La questione filosofica”. Grazie ad una serie di contributi dedicati ad autori specifici (Adorno, Merleau-Ponty, Derrida, Deleuze), ma anche a riflessioni di più vasta portata, i testi qui raccolti mostrano con chiarezza l’esigenza di fare dello stile in filosofia l’oggetto di una indagine di tipo filosofico, o anzi, meglio, metafilosofico. Interrogarsi sul ruolo dello stile nella pratica filosofica significa infatti ritornare al nesso essenziale del rapporto tra verità e parola, riconoscere lo statuto letterario dei testi filosofici e anche (o soprattutto) rendere meno scontata l’esigenza che la filosofia debba conformarsi all’ideale (o all’illusione?) di una scienza rigorosa.
Gilles Deleuze è uno dei filosofi francesi più rilevanti del ’900 per lo spessore e la ricca articolazione del suo pensiero. Nella sezione “Laboratorio” se ne fa carico il testo di Fulvio Carmagnola, “Una buona dose di candore filosofico. La teoria deleuziana dell’idea”, che prende spunto da una attenta e approfondita ricognizione del capitolo quarto di Differenza e ripetizione (1968), intitolato “Sintesi Ideale della differenza”, per focalizzare la complessità dell’idea nella filosofia di Deleuze. L’avvio è il concetto che l’idea è differenza dinamica in quanto il differenziale mostrato dal simbolo dx non è solo strumento del calcolo matematico ma è anche dinamica del pensiero, attiene alla filosofia della differenza, rammentando che in generale le idee sono essenzialmente “problematiche” nella loro natura insieme immanente e trascendente. Questa appropriazione del pensiero si dispone al limite estremo della sua possibilità con “un pizzico di follia”, che a Deleuze non manca. Nella successiva parte Carmagnola fa riferimento a La piega. Leibniz e il barocco (1988), nel quale l’autore introduce la figura della piega in quanto aggiuntiva a quella della differenza. Le pieghe – artefici del Barocco – il-limitano o sfumano il contorno preciso dell’oggetto. Va chiarito, comunque, che non c’è dualismo di sensibile e di intelligibile, ovvero di piega e di idea, ma la piega sta nella stessa immanenza come matrice della attualizzazione delle cose mediante un processo seriale di proliferazione. La pubblicazione di questo contributo non è che la anticipazione del prossimo numero di questa rivista che assumerà nella sezione “La questione filosofica” proprio il pensiero di Gilles Deleuze.
Il secondo contributo della sezione, “La fenomenologia delle Pensées tra indifferentismo e diversione” a firma di Manlio Forni, prolunga al contrario una vasta serie di contributi apparsi nell’anno passato in occasione delle celebrazioni del quattrocentenario della nascita di Blaise Pascal. Forni si interessa in particolare ad uno dei concetti più noti del filosofo francese, quello di “divertissement”, e si sforza di metterlo in relazione con l’analisi che Pascal propone dell’indifferente, cioè di colui che, benché senta con dolore l’angoscia esistenziale, decide di non curarsene, e di correre verso il precipizio, come dice Pascal, dopo essersi bendato gli occhi. Si tratta di problema essenziale per il progetto di natura apologetica al quale lavorava Pascal redigendo i Pensieri. Ma la portata di queste analisi che Forni, sulla scorta di alcune pagine di Heidegger, conduce in maniera strettamente fenomenologica, è senza dubbio più ampia. L’indifferenza (reale, affettata, subita per mancanza di forze e di slancio) costituisce a più di un titolo la “passione” fondamentale del nostro tempo, e Pascal ne fornisce una comprensione che mantiene intatta la sua attualità.
Chiude la sezione Katia Cannata, che in “Thinking in Complexity. Un itinerario ai margini del caso” tratta una questione di prioritaria importanza della scienza contemporanea relativa ai cosiddetti Complex Adaptive Systems (CAM) – ovvero i sistemi complessi che vengono ritenuti oggi, a differenza della meccanica classica, quelli della gran parte dei fenomeni attinenti alla fisica. Con i sistemi complessi ci si attesta at the edge of chaos, nella linea intermedia sospesa tra l’idea di un mondo determinista ed un mondo soggetto al caso, e si scardina l’idea di nessi causali unidirezionali. Si affianca a questa prospettiva l’emergentismo che illustra nuove qualità che trascendono quelle delle parti costituenti. Ne viene che il tema della complessità si estende dalla scienza fisica alle scienze sociali e alla stessa filosofia, come le appropriate riflessioni di Edgar Morin hanno ben messo in luce.
Il tema della complessità trattato in “Laboratorio” ritorna con altre tonalità nella sezione “Intersezioni” nel testo “La grotta magica. Melancholia di Lars von Trier e il pensiero della complessità” di Giuseppe Fornari, che opera una interessante correlazione tra il plot narrativo del film Melancholia e una riflessione critica sulla società contemporanea. Il rifugio temporaneo e assolutamente precario della grotta magica nella quale la protagonista del film Justine tenta di ripararsi dal catastrofico impatto del pianeta canaglia (rogue planet) che sta per devastare irreparabilmente la Terra è simbolico della nostra condizione umana. Analogamente precario è ciò che si può allestire come rifugio nel tempo della contemporaneità, segnato dalla complessità dei problemi e il senso di solitudine che provano le persone nella vita quotidiana. Ne segue una denuncia dell’uso che si fa delle scienze e, soprattutto, l’appiattimento della società su stereotipi funzionali alla gestione economica e politica dei poteri dominanti. La tragicità che permea il film di von Trier si trasferisce nella atmosfera di un presente pieno di infausti presagi non facili da esorcizzare.
Per la sezione “Culture” il testo di Bruno Guerini “Il principio estetico del fūryū nel pensiero giapponese, dalla corte Heian agli intellettuali del XX secolo” si sofferma sulle varie sfaccettature della parola fūryū nel corso delle varie epoche della storia giapponese. Nata come derivazione dal termine cinese fengliu esso assume il significato di raffinata bellezza nel periodo della dominazione Heian (794-1185) che trova la miglior espressione nel Genji monogatari (La storia di Genji) di una dama di corte, opera che sarebbe divenuta un importante riferimento per la successiva letteratura giapponese. Con l’avvento del buddismo Zen fūryū trova riferimento nel decoro semplice della cerimonia del tè e in tempi più recenti, sotto l’influenza occidentale, spazia in una gamma di significati da bellezza a libertà e verità. A dire che la storia di questa parola e la storia politico-culturale del Giappone procedono di pari passo.
La “Corrispondenza” di questo numero è offerta da Helmut Heit, studioso tedesco e noto specialista di Nietzsche che rende conto nel suo contributo del periodo di insegnamento svolto per tre anni all’Università Tongji di Shanghai. Come suggerito dal titolo, “Tre anni di filosofia occidentale nella Repubblica popolare cinese”, Heit non si limita a testimoniare delle pratiche di insegnamento e di ricerca di cui ha fatto esperienza ma propone una riflessione più a ampio raggio, e a tratti sorprendente, sul rapporto tra la cultura asiatica e la nostra tradizione filosofica. La filosofia occidentale è in effetti al centro di un complesso processo di assimilazione che ci impone di riflettere su quali siano, a dispetto della nostra stessa percezione, le istanze più vive, se non gli elementi “più facilmente esportabili” del pensiero europeo.
Chiude il numero la sezione “Letture ed eventi” con una serie di recensioni: Stefano Stradotto su Kierkegaard. La fede come superamento dell’angoscia di Giuseppe Macrì; Gianni Trimarchi su Antropogenesi e apprendimento di Serena Veggetti; Elena di Bella su L’ombelico del sogno di Vittorio Lingiardi; Massimo Mezzanzanica su Briciole di complessità. Tra la rugosità del reale di Mario Castellana; Marco de Paoli su “Come non insegnare la filosofia” di Massimo Mugnai; Bianca Curioni su Günther Anders di Marina Lalatta Costerbosa.