WHITEHEAD E LA FILOSOFIA DEL CONCRETO

Il senso comune accusa spesso i filosofi di mancare di concretezza. In una pagina famosa, Platone racconta che Talete, intento a studiare gli astri, cadde in un pozzo, suscitando le risa di una servetta che gli fece seduta stante la morale: “Invece di occuparti tanto delle cose che stanno in cielo, avresti fatto meglio a guardare quello che ti stava davanti ai piedi!”. Ma cosa significa concretezza? Che la filosofia deve per forza farsi pratica e politica (smettere di interpretare il mondo, rimboccarsi le maniche e cambiarlo?) Oppure che la filosofia dovrebbe essere sempre in grado di reagire al modificarsi delle condizioni storiche e sociali (o ecologiche), se non di dirigerne il corso? O ancora, una filosofia più concreta, meno astratta, è forse una filosofia che non dimentica il corpo e gli affetti di cui spesso è preda, e resiste alla tentazione di ridurre l’uomo che pensa ad una mente disincarnata?

L’esigenza di concretezza, e le domande e le prospettive che ne derivano in filosofia, sono al centro di molti dei contributi di questo numero che, nella sezione “La Questione Filosofica”, propone un dossier su “Alfred North Whitehead e la filosofia del concreto” curato e presentato da Maria Regina Brioschi. Noto ai più come coautore con Russell dei Principia matematica, Whitehead fu filosofo poliedrico e fecondo, che spese molte pagine a tematizzare la nozione di “concreto”. Nell’idea del concreto si cristallizza infatti per Whitehead l’esigenza di pensare la natura e la conoscenza come dei processi, degli eventi cioè dove la relazionalità indica la dimensione di con-crescita. Nessuna dottrina filosofica o scientifica nasce perfetta e già tutta armata, come Minerva. Al contrario, la razionalità emerge come un disegno in un arazzo da un tessuto spesso intricato e contradditorio di istanze concettuali e materiali.

Ma la concretezza, si diceva, è anche sinonimo di corpo e di pensiero incarnato. Al tema del “corpo affettivo” e in particolare all’“esperienza sonora nella costituzione della persona” è consacrato il primo dei tre interventi della sezione “Laboratorio”, a firma di Elia Gonnella. Prolungando le analisi di Heidegger, Scheler, Damasio e Sloterdijk, l’autore sottolinea il ruolo degli stati emozionali, cioè delle intonazioni affettive somaticamente determinate, nell’esperienza dell’ascolto. Ascoltare significa commuoversi, muoversi insieme, entrare in una risonanza (positiva o negativa) che impone di ripensare la costituzione del sé come un processo in cui l’apertura all’altro è strutturante e avviene in maniera affettiva prima ancora che concettuale. Tuttavia, se il pensiero si fa concreto perché pensa in un corpo incarnato, la concretizzazione della filosofia è più spesso legata ai suoi possibili corollari pratici. Il contributo di Edoardo Raimondi “Propaganda, verità e mass media. Uno studio weiliano” si muove in questa direzione rileggendo un testo di Eric Weil del 1953. Weil, grande studioso di Hegel e di Kant, riflette sul rapporto tra fatti e valori e sulla cattiva reputazione di cui gode la propaganda. La propaganda, nella sua figura moderna, secolarizzata e seguita al crollo delle ideologie, instaura un regime di violenza pura. Scrive Weil, “il propagandista moderno crede nella sua verità perché questa gli rivela un valore: tutte le altre considerazioni, compresa quella sulla verità che potrebbe contenere la sua propaganda, è subordinata alla vittoria del valore che egli serve”. Di fronte a questo depauperamento della nozione stessa di verità, che i mass media estenuano, Weil promuove una ripresa della pratica del dialogo, se non addirittura la possibilità di una riabilitazione della propaganda come promozione di una verità, se non della verità.

L’ultimo intervento della sezione “Laboratorio”, a firma di Ilenia Russo (“«Sapienza occulta». Due note sulla magia campanelliana”), ci invita a riflettere su un’altra dimensione della concretezza in filosofia. Lo studio si concentra sulle vicende redazionali di un testo del filosofo Tommaso Campanella dedicato al Senso delle cose e della magia, la cui “composizione” impegna il controverso autore calabrese per vari decenni, tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento. Gli scarti tra la versione in volgare e la versione latina del trattato permettono di apprezzare l’evoluzione del pensiero di Campanella sulla magia e di riprendere la difficile questione della sua presunta crisi religiosa nei primi anni del Seicento. Ma soprattutto lo studio di Ilenia Russo ci ricorda che le opere filosofiche non sussistono come disincarnati sistemi di dottrine ma si fanno lingua e pagine, e queste concretizzazioni della filosofia sono quelle che più ne determinano il senso, e talvolta il destino.

La questione della concretezza ritorna nella sezione “Culture” con il contributo di Simona Gallo, “L’io, il sé, l’altro: essenza, esperienza e conoscenza secondo Gao Xingjian”. Artista poliedrico di origini cinesi, narratore, drammaturgo, teorico e critico, Premio Nobel per la Letteratura 2000, Gao Xingjian è persona non grata per il governo di Pechino e cittadino naturalizzato francese. La sua vicenda umana e politica si riflette, a livello estetico, in una riflessione sulla natura della scrittura come rapporto con il sé. Nella lingua cinese, il termine ziwo, che significa “io”, e il termine xiaowo, “piccolo io”, diventano d’uso comune nel lessico degli scrittori cinesi della fine degli anni Settanta. La narrativa ritrova infatti la voce di un soggetto che si stacca e si emancipa dalla narrazione dalla voce nazionale, dal “noi” collettivo, dal daw, il “grande io”. La ricerca dell’io concreto, dell’io così come si con-creta in una stratificazione spesso caotica e plurale di esperienze non determinate a priori dalle coordinate politiche e sociali diventa l’oggetto principale della meditazione di Gao Xingjian.

La sezione “Intersezioni” ospita un contributo di Luigiandrea Luppino su “Franco Basaglia e il problema del deviante. Una lettura de La maggioranza deviante alla luce delle Conferenze Brasiliane”. Inutile sottolineare il carattere eminentemente concreto della riflessione teorica di Basaglia, che promosse una vera e propria rivoluzione culturale e istituzionale nell’ambito dei trattamenti psichiatrici. Lo studio di Luppino propone una lettura incrociata di due testi di Basaglia degli anni Settanta. Emerge in particolare il senso molto acuto che Basaglia ebbe di una deriva possibile verso l’astrazione e l’ideologia, incarnata in parte dai movimenti di antipsichiatria. Al contrario, come scrive, il vero “compito” è quello di “non confondere il “concreto”, il “praticamente vero”, con il “simbolo”, con la simbolizzazione sociale e politica”.

L’orizzonte è quello di una pratica rinnovata alla luce della concreta esperienza della realtà psichiatrica, non di una ideologia politica, a valori invertiti, in cui si esalta la follia come liberazione. Nella sezione “Controversie”, Francesco Remotti prolunga la riflessione inaugurata nel numero precedente sulle tesi dell’antropologo Eduardo Viveiros de Castro (“Culture come ontologie o l’ontologia come cultura? A proposito di “Controversie” sulla svolta ontologica”). Remotti ritorna sulle origini e gli sviluppi della recente “svolta ontologica” in antropologia, in particolare a partire dai lavori di Descola e De Castro. In antropologia, come in altre discipline, il ricorso al lessico della “ontologia” appare spesso come un tentativo (maldestro) di assicurare a una disciplina eminentemente empirica e “idiografica” lo statuto di un sapere “nomotetico”. Staccarsi dalla etnografia che descrive il presentarsi fattuale delle pratiche e delle culture per definirne leggi e modelli e addirittura articolare sistemi di visioni del mondo significa però obliterare tutto ciò che ha di concreto la pratica dell’antropologo. E Remotti ci ricorda molto opportunamente in questo senso che i miti e riti di Amerindiani, Africani, Oceaniani hanno spesso una dimensione umoristica che mal si adatta alle alte e astratte categorizzazioni.

In fin dei conti, è possibile che la filosofia riveli la sua più pura e alta funzione proprio quando è confrontata all’insensatezza più desolante del dato concreto. Questa la morale che suggerisce l’intensa testimonianza e la profonda meditazione proposta da Vitalii Mudrakov nel suo contributo “Buonasera, veniamo dall’Ucraina!”, ospitato nella sezione “Corrispondenze”. Intrecciando il racconto della propria formazione filosofica in Ucraina e le vicende politiche recenti e meno recenti della sua nazione, l’autore offre uno spaccato estremamente lucido del rapporto intimo che sempre sussiste tra pensiero e vita. Lungi da essere un facile rifugio, la filosofia diventa un obbligo quasi morale. Più ancora, la filosofia costituisce il luogo in cui la storia si pensa, e, affrontando ciò che c’è di più insensato, la guerra, trova le forze per esigere un futuro diverso.

Chiude il numero la consueta sezione “Letture ed eventi”, con due recensioni di Gianni Trimarchi dedicate a due saggi che prolungano le riflessioni di Simondon e Vygostki (L. Scheller, La force collective et l’individu) e le intrecciano con le tesi di Spinoza (P. Severac, Puissance de l’enfance). Stefano Piazzese recensisce Agostino. Fare la verità, di M. Ferraris e Giulia Zaccaro rende conto dell’ultimo saggio di R. Màdera, Lo splendore trascurato del mondo.

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